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Privacy e recupero crediti, la Cassazione conferma il criterio di minimizzazione nell’uso dei dati personali

La Cassazione ha rigettato il ricorso di una debitrice che lamentava il reato di violazione della privacy da parte della sua banca, affermando il principio di minimizzazione dei dati previsto dall’art. 5 del GDPR
La privacy al centro di un processo che riguarda il pignoramento di un immobile. La cliente di una banca, che si è vista pignorare l’abitazione, ha lamentato la violazione della privacy nel trattamento dei dati personali al momento della cessione del credito ad un privato. Nello specifico, la banca avrebbe fornito ai soggetti acquirenti i dati sensibili della donna, quali informazioni personali, la sua situazione debitoria e informazioni riguardanti l’immobile. Dopo la decisione della Corte d’Appello che aveva escluso il reato di violazione della privacy, la debitrice ha presentato ricorso alla Cassazione. La Suprema Corte, con l’ordinanza 34113 pubblicata il 19 dicembre scorso, ha tuttavia rigettato la motivazione della cliente, ritenuta inammissibile “per genericità”.
A sostegno della loro tesi, i giudici hanno richiamato il principio di minimizzazione nell’uso dei dati personali, previsto dall’art. 5 del GDPR. Facendo leva sul Regolamento europeo infatti, la Suprema Corte ha evidenziato che “non vi è dubbio che il trattamento delle informazioni personali effettuato nell’ambito dell’attività di recupero crediti sia lecito purché, avvenga nel rispetto del criterio di minimizzazione nell’uso dei dati personali, dovendo essere utilizzati solo i dati indispensabili, pertinenti e limitati a quanto necessario per il perseguimento delle finalità per cui sono stati raccolti e trattati”.
Sulla scorta di tale principio, la Corte ha escluso la responsabilità della banca, sottolineado che la ricorrente non può contestare all’istituto di credito di aver violato la privacy “solo perché ha fornito ai soggetti acquirenti informazioni riguardanti la debitrice funzionali alla cessione del credito”. Tutt’al più che la donna non ha fornito alcuna prova in merito al fatto che la comunicazione sia avvenuta in violazione del principio di minimizzazione dei dati. La debitrice aveva contestato alla banca di aver rivelato “dati sensibili a terzi”, ma non ha specificato quali.

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