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Recessione: le cose che i media non vi hanno detto

Recessione: le cose che i media non vi hanno detto

In tutto il mondo, i mercati stanno lanciando segnali d’allarme che indicano che l’economia globale sta barcollando sull’orlo di un precipizio. La questione della recessione non è più se, ma quando.

I segni che il mondo sta andando verso una recessione

Nell’ultima settimana, il battito di queste luci rosse lampeggianti si è accelerato mentre i mercati si confrontavano con la realtà (un tempo speculativa, ora certa dopo le ultime dichiarazioni del Governatore Powell) che la Federal Reserve continuerà a portare avanti la sua campagna di inasprimento monetario più aggressiva degli ultimi decenni. Lo farà per strappare l’inflazione dall’economia statunitense (la stessa cosa sta facendo la BCE nell’Unione Europea).

E lo farà anche se ciò significasse innescare una recessione. E anche se ciò dovesse avvenire a spese dei consumatori e delle imprese ben oltre i confini degli Stati Uniti.

Secondo la società di ricerca Ned Davis, che ha una discreta credibilità storica, le probabilità di una recessione globale sono ora del 98%. La lettura della probabilità di recessione della società è stata così alta solo due volte in passato, nel 2008 e nel 2020.

Quando gli economisti avvertono di una recessione, in genere basano la loro valutazione su una serie di indicatori. Vediamo di approfondire come la questione abbia molto a che fare con ciò che avviene al di là di “The Pond”, lo stagno, come i britannici chiamano (spregiativamente) l’Atlantico, quindi in America.

Il “più che potente” dollaro USA

Il dollaro USA svolge un ruolo di primo piano nell’economia globale e nella finanza internazionale, essendo la valuta primaria di riserva del pianeta (anche quando le cose non vanno benissimo negli USA…). E in questo momento è più forte di quanto non sia stato negli ultimi vent’anni.

La spiegazione più semplice è la Fed.

Quando la banca centrale statunitense alza i tassi di interesse, come sta facendo da marzo, rende il dollaro più attraente per gli investitori di tutto il mondo.

In qualsiasi situazione economica, il dollaro è visto come un luogo sicuro dove parcheggiare il proprio denaro. In un clima tumultuoso (ad esempio una pandemia globale o una guerra nell’Europa dell’Est, come adesso) gli investitori sono ancora più incentivati ad acquistare dollari, di solito sotto forma di titoli di Stato statunitensi.

Se da un lato un dollaro forte è un bel vantaggio per gli americani che viaggiano all’estero, dall’altro crea problemi a quasi tutti gli altri.

Il valore della sterlina britannica, dell’euro, dello yuan cinese e dello yen giapponese, tra i tanti, è crollato. Ciò rende più costoso per questi Paesi importare beni essenziali come cibo e carburante.

In risposta le banche centrali, che stanno già lottando contro un’inflazione indotta da una pandemia, finiscono per alzare i tassi di interesse sempre più velocemente per sostenere il valore delle proprie valute.

La forza del dollaro ha effetti destabilizzanti anche per Wall Street, dato che molte delle società dello S&P 500 operano in tutto il mondo. Secondo una stima di Morgan Stanley, ogni aumento dell’1% dell’indice del dollaro ha un impatto negativo dello 0,5% sugli utili dello S&P 500. Ed infatti Wall Street, e praticamente tutte le principali borse mondiali, stanno andando malissimo in questo 2022.

Il motore economico dell’America è in stallo

Il motore numero uno dell’economia più grande del mondo è lo shopping. E gli acquirenti americani sono “stanchi”.

Dopo più di un anno di aumento dei prezzi di quasi tutto, con i salari che non tengono il passo, i consumatori si stanno tirando indietro.

Le difficoltà causate dall’inflazione fanno sì che i consumatori attingano ai loro risparmi. Il tasso di risparmio personale ad agosto negli USA è rimasto invariato a solo il 3,5%, vicino al tasso più basso dal 2008 e ben al di sotto del livello pre-Covid di circa il 9%.

Ancora una volta, la ragione di questa flessione ha molto a che fare con la Fed.

I tassi di interesse sono arrivati a un ritmo storico, spingendo i tassi ipotecari al livello più alto in oltre un decennio, e rendendo più difficile la crescita delle imprese. Alla fine, i rialzi dei tassi della Fed dovrebbero far scendere i costi. Ma, nel frattempo, i consumatori stanno ricevendo un doppio colpo: tassi di prestito elevati e prezzi alti, soprattutto quando si tratta di beni di prima necessità come il cibo e la casa.

Gli americani hanno aperto i loro portafogli durante i lockdown del 2020, che hanno spinto l’economia a uscire dalla breve, ma grave, recessione pandemica. Da allora, gli aiuti governativi sono finiti, e l’inflazione ha attecchito, facendo salire i prezzi al ritmo più veloce degli ultimi 40 anni, e intaccando la capacità di spesa dei consumatori.

L’America delle imprese stringe la cinghia

Per la maggior parte dell’era pandemica gli affari sono andati a gonfie vele in tutti i settori, anche se l’inflazione, storicamente elevata, ha intaccato i profitti. Questo grazie (ancora una volta) alla tenacia degli acquirenti americani, in quanto le aziende sono state ampiamente in grado di trasferire i loro costi più elevati ai consumatori per mantenere i margini di profitto.

Ma l’abbondanza degli utili potrebbe non durare.

A metà settembre, una società che rappresenta una sorta di campanello d’allarme economico ha dato una scossa agli investitori.

La FedEx, che opera in più di 200 paesi, ha rivisto inaspettatamente al ribasso le sue previsioni. Ha avvertito che la domanda si stava indebolendo, e che gli utili sarebbero probabilmente crollati di oltre il 40%.

In un’intervista, all’amministratore delegato è stato chiesto se ritiene che il rallentamento sia un segno di una recessione globale incombente.

“Penso di sì”, ha risposto. “Questi numeri non lasciano presagire nulla di buono”.

La FedEx non è sola, ahinoi. Martedì scorso il titolo Apple è crollato in Borsa. L’agenzia Bloomberg ha riferito che l’azienda stava abbandonando i piani per aumentare la produzione dell’iPhone 14 dopo che la domanda era risultata inferiore alle aspettative.

E proprio in vista delle festività natalizie, quando i datori di lavoro normalmente aumentano le assunzioni, l’umore è ora più cauto.

Non abbiamo assistito alla normale impennata di settembre per quanto riguarda le aziende che richiedono un aiuto temporaneo, dicono dalla società di lavoro temporaneo ZipRecruiter. Le aziende si stanno trattenendo, ed aspettano di vedere quali siano le condizioni di mercato, aggiungono.

Ancora una volta, la colpa è della Fed.

L’inflazione, insieme al forte aumento dei tassi di interesse da parte della banca centrale, ha spinto al ribasso i prezzi delle obbligazioni. Questo ha fatto salire i rendimenti dei titoli (ovvero il rendimento che un investitore ottiene per il suo prestito al governo).

Mercoledì scorso, il rendimento del Treasury USA a 10 anni ha brevemente superato il 4%, toccando il livello più alto degli ultimi 14 anni. L’impennata è stata seguita da un brusco calo in risposta all’intervento della Banca d’Inghilterra nel proprio mercato obbligazionario. Intervento che si è trasformato in un movimento tettonico in un angolo del mondo finanziario progettato per essere stabile, se non addirittura noioso.

Anche i rendimenti obbligazionari europei sono in aumento, poiché le banche centrali seguono l’esempio della Fed nell’aumentare i tassi per sostenere le proprie valute.

Purtroppo in questo momento gli investitori hanno pochi posti sicuri dove mettere i propri soldi. La situazione non cambierà finché l’inflazione globale non sarà sotto controllo e le banche centrali non allenteranno la presa.

Guerra, impennata dei prezzi e politiche radicali portano alla recessione

In nessun luogo la collisione tra calamità economiche, finanziarie e politiche è più dolorosamente visibile che nel Regno Unito.

Come il resto del mondo, il Regno Unito ha lottato contro l’impennata dei prezzi, in gran parte attribuibile al colossale shock della Covid-19, seguito dalle interruzioni commerciali create dall’invasione russa dell’Ucraina. Poiché l’Occidente ha tagliato le importazioni di gas naturale russo, i prezzi dell’energia sono saliti alle stelle, e le forniture si sono ridotte.

Questi eventi erano già abbastanza gravi di per sé.

Ma poi, poco più di una settimana fa, il governo del Primo Ministro Liz Truss, appena insediato, ha annunciato un vasto piano di tagli alle tasse che gli economisti di entrambi gli schieramenti politici hanno definito poco ortodosso nel migliore dei casi, diabolico nel peggiore.

In breve, l’amministrazione Truss ha dichiarato di voler ridurre le tasse per tutti i britannici per incoraggiare la spesa e gli investimenti e, in teoria, attenuare il colpo di una recessione. Ma i tagli fiscali non sono finanziati, il che significa che il governo deve indebitarsi per finanziarli.

Questa decisione ha scatenato il panico sui mercati finanziari, e ha messo Downing Street in una situazione di stallo con la sua banca centrale indipendente, la Banca d’Inghilterra. Gli investitori di tutto il mondo hanno venduto in massa i titoli del Regno Unito, facendo precipitare la sterlina al livello più basso rispetto al dollaro in quasi 230 anni. Cioè dal 1792, quando il Congresso ha dato corso legale al dollaro americano.

Mercoledì la BOE ha messo in atto un intervento di emergenza per acquistare obbligazioni britanniche e riportare l’ordine sui mercati finanziari. Per ora ha arginato l’emorragia. Ma l’effetto a catena delle turbolenze della Trussonomics si sta diffondendo ben oltre gli uffici degli operatori obbligazionari.

I britannici, già in crisi per il costo della vita, con un’inflazione al 10% (la più alta di tutte le economie del G7) sono ora in preda al panico per l’aumento dei costi dei prestiti, che potrebbe costringere milioni di proprietari di case a pagare mutui più alti di centinaia o addirittura migliaia di sterline.

Per fortuna è proprio di ieri la notizia che il governo britannico abbia fatto una parziale marcia indietro. Ha infatti deciso di non procedere all’eliminazione dell’aliquota massima del 45% sui redditi più alti, misura che vale solo 2 miliardi di sterline su un pacchetto di complessivo di 45, ma che era stata particolarmente invisa sia alla popolazione che a tanti parlamentari del Partico Conservatore, perché in effetti non è molto furbo tagliare le tasse ai più ricchi quando la popolazione è alle prese col carovita e l’impennata dei costi energetici.

Conclusione

Sebbene sia opinione comune che una recessione globale sia probabile nel 2023, è impossibile prevedere quanto sarà grave o quanto durerà. Non tutte le recessioni sono dolorose come la Grande Recessione del 2007-2009, ma tutte le recessioni sono, ovviamente, dolorose.

Alcune economie, in particolare gli Stati Uniti, con il loro mercato del lavoro forte e i consumatori resistenti, saranno in grado di resistere al colpo meglio di altre.

“Nei prossimi mesi ci troveremo in acque inesplorate”, scrivono gli economisti del World Economic Forum in un rapporto di questa settimana.

“Le prospettive immediate per l’economia globale e per gran parte della popolazione mondiale sono cupe”, hanno proseguito, aggiungendo che le sfide “metteranno alla prova la capacità di recupero delle economie e delle società e imporranno un pesante tributo umano”.

Ma ci sono anche dei lati positivi. Le crisi costringono a trasformazioni che in ultima analisi possono migliorare gli standard di vita e rendere le economie più forti.

Le imprese devono quindi cambiare. Questa è la storia da quando è iniziata la pandemia. Le imprese non possono più continuare sulla strada che hanno intrapreso. Questa è la loro opportunità, e il lato positivo di questa vicenda economica.

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